Moda sostenibile, chiave per la ripresa e opportunità per i freelance

moda sostenibile e ripresa

Sostenibile è di moda, i riflessi sulla ripresa economica

La ripresa economica è la vera sfida del post pandemia e la moda sostenibile può diventarne protagonista. La sostenibilità infatti è diventata un must in tutte le sfere della vita di oggi e la moda non fa eccezione.

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La declinazione pratica di ecofashion è abbastanza complessa e articolata. Include diversi aspetti, tra cui anche quello economico e sociale, ma è sicuramente l’impatto ambientale che desta più preoccupazione.

In questo scenario assume sempre più importanza una informazione corretta e verificata che può diventare un’opportunità per noi freelance della comunicazione.

Da fast fashion il 10% dell’inquinamento globale

Spesso noi consumatori ce ne dimentichiamo, mentre gli addetti ai lavori pur sapendolo benissimo, preferiscono non parlarne. Se analizziamo l’impatto ambientale dell’industria della moda nel mondo, i numeri fanno letteralmente accapponare la pelle. Ben il 10% dell’inquinamento globale (parliamo delle emissioni dei gas serra) è imputabile a questo settore, soprattutto al fast fashion. Di fatto, lo pone al secondo posto dopo l’industria petrolifera.

Moda sostenibile utilizza meno acqua, la ripresa è green

Secondo le stime di un recente rapporto delle Nazioni Unite, il settore moda consuma più energia del trasporto aereo e di quello marittimo messi insieme. Praticamente ogni tassello della filiera, dalla produzione al consumo, risulta dannoso per l’ambiente. Per esempio, la moda è uno dei maggiori consumatori d’acqua (1.500 miliardi di litri l’anno). E’ infatti necessaria per processi come tintura, stampa e finissaggio ma anche per irrigare le piantagioni di cotone. Questo utilizzo causa il 20% dello spreco globale.

Solo l’1 per cento dei capi viene riciclato

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Inoltre, le lavorazioni dei tessuti sono responsabili di circa il 20% dell’inquinamento idrico industriale. Circa 500 mila tonnellate all’anno delle microplastiche che si riversano negli oceani proviene dai lavaggi dei capi in fibre sintetiche (soprattutto il poliestere). Nella produzione delle materie prime viene utilizzato il 24% di insetticidi e l’11% di pesticidi. L’85% dei tessuti diventa scarto, mentre i capi d’abbigliamento che vengono bruciati o mandati alle discariche superano i 92 milioni di tonnellate l’anno. Solo l’1% dei capi viene riciclato o rigenerato. Non si tratta solo di abiti usati, ma anche dell’invenduto che viene eliminato per fare posto alle nuove collezioni.

La delocalizzazione ha reso meno sostenibile la moda

Se poi pensiamo anche al modello di business che ha delocalizzato la maggior parte della produzione nei Paesi in via di Sviluppo dove i costi di produzione e l’attenzione all’ambiente sono molto bassi, vediamo anche l’impatto della logistica.

I trasporti verso i mercati principali dell’Europa e Nord America che sempre più spesso avvengono con aerei cargo anziché via mare (il fast fashion non ammette ritardi!), accrescono l’inquinamento dai carburanti bruciati.

Le logiche perverse del consumismo, necessario cambiare

Però non possiamo accusare solo l’industria di queste disastrose conseguenze per l’ambiente. Anche i consumatori hanno la propria parte della responsabilità: la domanda genera l’offerta creando un circolo vizioso. Negli ultimi anni il consumo globale di prodotti tessili ha raggiunto circa 62 milioni di tonnellate all’anno. Secondo i pronostici, diventeranno 102 milioni di tonnellate entro il 2030.

No “usa e getta”, per ripresa scelte acquisto siano responsabili

Nello stesso tempo, all’aumento della produzione stimabile in circa il 2% annuo, corrisponde una costante diminuzione della qualità e del prezzo. I costi bassi spingono il consumatore medio a comprare di più (in Europa, per esempio, nel periodo 1996-2012, gli acquisti di abbigliamento sono cresciuti del 40%) ma ad usare di meno. Una scelta dovuta anche alla bassa qualità (il numero di volte in cui un capo viene indossato è diminuito del 36% rispetto al 2005, in media arriva a 7/8 volte). In altre parole, ormai si tende a trattare l’abbigliamento alla stregua dell’“usa e getta”.

La svolta verso la moda sostenibile parte dai giovani

È assolutamente indispensabile cambiare questo trend e soprattutto la mentalità dei consumatori. D’altro canto, l’industria deve necessariamente iniziare a pensare alla sostenibilità come a un’assoluta priorità nello sviluppo e nella gestione della propria attività. È una sfida complessa, soprattutto nell’ottica dei problemi sociali ed economici che la decrescita della produzione porterebbe. E’ necessario trovare le vie d’uscita da questo circolo vizioso.

Pochi capi, forse più costosi ma più duraturi

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Oggi molti consumatori, soprattutto giovani sotto i 30, cominciano a convertirsi alla filosofia “less is more”. Si tende a preferire beni più duraturi, di qualità superiore e lavorati in modo sostenibile, anche se più costosi rispetto ai prodotti fast fashion. Anzi, sono sempre più propensi ad acquistare capi di alta gamma da cui pretendono qualità e trasparenza, e soprattutto il rispetto del pianeta.

Acquistare meno e meglio: anche questa è ripresa

“I giovani pongono molta più attenzione a come e dove viene realizzato un prodotto. C’è una tendenza ad acquistare meno, ma ad acquistare meglio, magari spendendo qualcosa in più per un capo destinato a durare non una sola stagione”, sostiene Carolina Cucinelli, secondogenita di Brunello Cucinelli, che ha partecipato al recente Luxury Summit 2021 de Il Sole 24 Ore. Secondo lei la sostenibilità, per le nuove generazioni, diventa un prerequisito per l’acquisto, quindi “l’impegno green” deve diventare per tutte le aziende l’obiettivo primario.

Disposti a spendere di più se la moda è sostenibile

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Una ricerca condotta dagli studenti della Bocconi The Future of Retail Store and Customer Engagement in the New Normal tra centinaia di consumatori in tutta Europa ha evidenziato che la sostenibilità non solo assume un ruolo prioritario per le scelte di acquisto, ma anche giustifica il premium price. Oltre la metà dei consumatori si dice disposto a spendere dal 5 al 20% in più per capi di abbigliamento con un impatto ambientale ridotto. Per le nuove generazioni il value for money è una priorità nelle scelte di acquisto (73%). Inoltre, il 35% pretende la trasparenza di filiera e il 33% i consumi ridotti di acqua ed energia nella produzione.

Filiera trasparente elemento di distintività

Sta cambiando anche l’orientamento verso l’origine del prodotto: resta un fattore di scelta importante per chi ha più di 55 anni (53%). Il cliente al di sotto dei quarant’anni non cerca il “made in” fine a se stesso, scelta condivisa soltanto dal 30% dei Millennial. Al contrario, ritiene significativa la trasparenza e la tracciabilità della filiera. Per cui un prodotto “made in Italy” di cui non si conoscono tutte le informazioni sulla filiera perde il suo valore nell’opinione dei giovani.

Moda sostenibile è anche scegliere “second hand”

con moda sostenibile nuova vita ai capi di abbigliamento

Comunicazione sostenibile? I freelance sono pronti

Resta da aggiungere solo un invito ai colleghi giornalisti ed esperti di comunicazione aziendale. Esiste l’opportunità di cogliere e lavorare sul tema della sempre crescente importanza del tema “sostenibilità” sia per l’industria sia per i consumatori. Il nostro compito è sensibilizzare le aziende, soprattutto piccole e medie, che costituiscono la stragrande maggioranza della filiera moda in Italia. Con un lavoro di informazione corretta e verificata possiamo cambiare le preferenze dei consumatori, a tutto vantaggio della sostenibilità.

Anche con i nostri comportamenti, modificando le abitudini di utilizzo di strumenti di lavoro come le stampanti, compiendo scelte responsabili anche a casa con la raccolta differenziata dei rifiuti, possiamo dare un decisivo contributo.

Questa sarà sempre di più la sfida principale dei prossimi anni.

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